PAVIA – Nazionale italiana di calcio fuori dai Mondiali per la seconda volta di fila. Non era mai successo nella storia dello sport più amato da tutti. Sì, è vero, gli azzurri hanno vinto l’Europeo l’estate scorsa, ma il palcoscenico planetario non li vede da ben otto anni. L’Italia non c’era a Russia 2018 e non ci sarà neppure a Qatar 2022. Ma questa malattia a un calcio che non è più quello di una volta, ma che ormai è soltanto un “circo barnum” di sponsor, diritti televisivi, contratti milionari, ecc., interessa davvero ancora a qualcuno? Abbiamo ancora nel sangue quella passione viscerale per questo sport oppure senza accorgercene bene abbiamo perso il contatto con quello che per noi era più che altro socialità e aggregazione? Pietro Tricella, oltrepadano, 35 anni, ha dedicato la sua vita al fulbar locale: quello vero, quello popolare, autentico e genuino, quello che è sempre stato una tradizione culturale sia nella nostra zona come in tutta la penisola italica, ma che ora sembra non essere più così.
“Non si vedono più bambini o ragazzi o meno giovani che improvvisano come una volta partitelle di calcio, magari lungo una strada o in un campo sportivo – commenta così – Tutto sparito. La nuova società, quella dei telefonini, dei social network, dei messaggi via internet, ecc., ha cancellato ogni ricordo di vita passata. Le strade sono vuote, in ogni stagione non si sentono più gli schiamazzi di ragazzi che rincorrono una palla per il semplice gusto di giocare tutti insieme. Esistono solo pochi e raffinati club sportivi che tirano su sedicenti ‘campioni’ e ‘fenomeni’ della domenica. Per tutti gli altri non c’è più spazio“. Forse è qui che il “Calcio” comincia a non essere più quello che è sempre stato per le passate generazioni. Questa nuova era senza più il “Pallone” come simbolo di socialità e aggregazione come sarà?
Pietro gioca a calcio, ancora oggi, e da “sempre”, in maniera organizzata da quando aveva 10 anni, in un noto club del nostro territorio, dove ha fatto tutte le trafile delle giovanili ed esordendo poi in prima squadra. Attualmente milita in Seconda Categoria. A un certo punto della sua carriera, però, ha iniziato a dedicarsi all’allenamento, in modo specifico delle giovanili. “Mi hanno spinto i GrEst che organizzavamo a Castelletto circa una quindicina d’anni fa, nella vecchia area della Pro Loco – racconta Tricella – Allora mi sono accorto che mi piaceva avere a che fare con il calcio dei più piccoli. Da lì ho iniziato a dare una mano dove c’erano le squadre dei bambini e dove mi sono sempre appassionato di più. All’inizio seguivo i ‘giovanissimi’ (14 anni), poi ho seguito anche quelli più piccoli (6-7-8 anni). Parallelamente a questo impegno, ho dato sempre una mano per smaltire tutto il lavoro che gravava nelle società, passando ad allenare ragazzi più grandi o a essere anche dirigente di prima squadra”.
Quali sono i problemi del calcio moderno a livello giovanile e generale? “Il calcio ha cambiato completamente forma rispetto al passato. Ricordo che, quando io ero bambino, questo sport era inteso come socialità, come semplice stare insieme. C’erano un sacco di ragazzi che giocavano a pallone allora, ogni paese aveva la propria squadra di calcio, il proprio campetto, gli oratori funzionavano e facevano venire fuori giocatori forti e veri talenti: non c’erano schemi o tattiche da seguire, ma solo la piena libertà di giocare tutti assieme. E’ cambiato tutto, purtroppo: ora non c’è più la cultura fra i giovani di trovarsi in strada e di giocare fino a sera. Adesso i ragazzi sono attratti da tante altre cose, tipo i computer, le playstation, i telefoni cellulari, i selfie su facebook o su instagram, e da altri strumenti ‘ammazza-socialità’. In questo triste contesto, il calcio giovanile si è trasformato in un incredibile business”.
In che senso? “Nel senso che ormai tutto è finalizzato alle scuole calcio, alle rette da pagare e agli ambienti dove si annidano personaggi che lucrano un sacco di soldi. Ci sono ancora dei volontari: qualche società qua attorno ha ancora gente che mette tempo e passione per far giocare e per far star bene i giovani, ma per lo più oggi come oggi il tutto è diventato un’enorme macchina che vende ai genitori le riciclate favole che il proprio figlio possa diventare un campione”.
Se ci sono tutte queste difficoltà e questi limiti, per forza di cosa ci saranno anche meno giocatori, e di conseguenza meno società di calcio? “Il fatto che ci siano meno squadre giovanili parte dagli errori che hanno fatto le varie federazioni sul territorio. Un conto è fare le squadre per ogni annata di bambini piccoli, dove è logico che non puoi far giocare un bambino di 7 anni contro uno di 9, perché due anni di differenza a quelle età vogliono dire due anni di struttura fisica molto differente; ma se il sistema impone campionati dilettantistici di ragazzi di 16 anni suddivisi in fascia A o in fascia B o in fascia C, allora il gioco viene meno. Se un ragazzo ha 15 anni, può benissimo giocare con uno di 16, invece hanno suddiviso il tutto solo per avvantaggiare le società medio-grosse a discapito di quelle piccole. La conseguenza è che vent’anni fa i territori erano pieni di società che avevano squadre giovanili, mentre oggi non c’è più niente. Riuscire a fare tornei di esordienti e di pulcini ora come ora è davvero difficile, bisogna sobbarcarsi trasferte anche di 40-50 km. Non c’è più nulla in giro, tranne il ‘club’ che magari partecipa con tre squadre, con 36 bambini, allo stesso campionato, divisi in squadra ‘gialla’, ‘rossa’, e ‘blu’: una pura follia”.
Meno squadre, più selezione? Qual è il panorama in provincia di Pavia? “Pavia e Voghera sono due società storiche, attualmente un po’ in fase di decadimento, che però cercano di fare ancora oggi un calcio un po’ professionistico, nonostante la categoria in cui militano le squadre senior (l’Eccellenza, nda). A Voghera c’è la Polisportiva Vogherese, che è un club completamente slegato dalla Vogherese, e che riesce ancora a fare tanto calcio giovanile, mentre a Pavia ci sono 4-5 società che fanno calcio giovanile a buon livello (A.C. Pavia, Frigirola, Athletic, Academy, Accademia Pavese). Tuttavia, in queste situazioni c’è il rischio che un bambino di 10 anni possa smettere di giocare per la delusione quando incontra un dirigente o un allenatore che, credendosi dei ‘fenomeni’, gli dicono che lui non è adatto a giocare in quella squadra. E questo succede puntualmente anche quando ci sono ragazzi abituati a perdere partite 20-0, perché si sentono inadatti. E’ la conseguenza dell’incapacità cronica degli allenatori e dei dirigenti di ‘fare calcio’. Guardiamo in alto e tralasciamo lo scorso titolo Europeo vinto dall’Italia in maniera un po’ fortuita. L’ultimo Mondiale portato a casa risale al 2006: se non siamo più stati capaci di sfornare nuovi Del Piero, Inzaghi, Totti, Pirlo, ecc., un motivo ci sarà. La stessa nostra serie A non è di certo più agli stessi standard di 20-30 anni fa, quando forse era la più competitiva del mondo. Se prendiamo il calcio inglese e lo confrontiamo con quello italiano, non c’è paragone. Il Liverpool si è presentato in casa del Milan con 5 ‘ragazzini’ in campo e ha vinto 2-0 in scioltezza. In Italia ci sono troppe elucubrazioni, soprattutto a livello di settore giovanile. Non si pensa più a giocare, ma ci si riempie la testa di sermoni solo su tattica e teoria”.
Qual è la sua opinione su tutti questi nuovi dirigenti e allenatori, che possiedono un patentino e che si vantano di essere dei novelli profeti in patria? “Io non ho il patentino, non lo farò mai perché costa troppo, ma non sono neanche critico verso chi ce l’ha. Tuttavia, è lo Stato che dovrebbe avere il ruolo centrale nello Sport, soprattutto giovanile, e il patentino non dovrebbe pagarlo il singolo aspirante allenatore, ma dovrebbe essere patrocinato dallo stesso Stato tramite corsi pubblici e gratuiti. Perché poi succede che chi tira fuori soldi di tasca propria per fare il corso ha chiaramente l’esigenza di rientrare da quella spesa; allora è costretto a chiedere un rimborso spese alla società che lo ingaggia, che a sua volta si deve rifare sulle famiglie dei baby calciatori, costretti a pagare salatissime iscrizioni. I bambini non sono più degli aventi diritto, ma vengono considerati come semplici ‘consumatori’”.
Quale può essere una soluzione a tutti questi problemi per rilanciare il calcio come ‘cultura’ a livello giovanile? Fusioni o sinergie fra più società insieme, come molti addetti ai lavori predicano, oppure un radicale ritorno all’antica? “Nel tempo noi ci siamo semplicemente divertiti a rovinare quello che già funzionava perfettamente, e lo dicono i risultati. L’unica soluzione è escludere gli interessi e le menate ricamate sopra i settori giovanili, e tornare a quello che facevamo una volta, e che sapevamo fare bene. Il discorso dei più giovani inizia anche dal non stressarli con troppe pretese da parte degli allenatori, che spesso li caricano con eccessive aspettative e li addossano sensi di colpa che non hanno. Bisogna tornare a essere semplicemente un po’ più ‘umani’: i ragazzi non hanno bisogno di vincere a ogni costo, hanno bisogno anche di sbagliare, e soprattutto di essere sé stessi”.