CASTELLETTO DI BRANDUZZO – In ogni piccolo paese può nascondersi il classico “cervello in fuga”. Perché molti talenti italiani trovano o preferiscono cercare lavoro all’estero? Perché non restano o non vogliono restare nel nostro Paese? Davide Tiana è sempre vissuto a Castelletto Po, ma dal 2008 ha iniziato a spostarsi in ogni parte d’Europa per coltivare la sua professione fino a diventare professore associato di chimica all’Università irlandese di Cork. Ha già alla spalle oltre 30 pubblicazioni di testi scientifici e un curriculum di tutto rispetto. Eppure in pochi sul territorio sono a conoscenza di tutto questo. E’ il triste destino dei cosiddetti cattivi profeti in patria. Che cosa insegna esattamente il prof. Davide Tiana all’Università di Cork? “Insegno vari corsi per il secondo, terzo e quarto anno nell’ambito della catalisi e della chimica dei materiali. Sotto la mia guida gli studenti seguono un percorso didattico nel quale durante il secondo anno introduco i concetti base di chimica organico-metallica ai concetti di chimica quantistica; l’anno seguente analizziamo le proprietà elettroniche e ottiche dei materiali; e, infine, nel quarto e ultimo anno (in Irlanda i corsi di laurea sono quadriennali) tengo i corsi di chimica inorganica avanzata, nonché di nanomateriali avanzati”.
Ha già anche alle spalle un numero elevato di pubblicazioni scientifiche: quante sono? “La mia prima pubblicazione risale al 2009: da allora ho pubblicato circa 35 lavori scientifici e ho all’attivo più di 1800 citazioni. Essendo il mio background in chimica teorica, gli argomenti trattati spaziano dalla ricerca pura, sviluppo di metodi e teorie per studiare e capire il legame chimico, ad argomenti più pratici come applicazioni. Per esempio, ho un paio di pubblicazioni sulla ricerca di nuovi semi-conduttori o magneti”. Prima di “approdare” in Irlanda ha avuto esperienze anche in Germania, Svizzera, Spagna e Regno Unito… Quanto importante sono state queste tappe per la sua crescita professionale? “Ho potuto acquisire diverse esperienze, sia dal punto di vista professionale, che umano. Sono convinto che ogni posto citato abbia contribuito a migliorare il mio profilo. Sarebbe interessante approfondire come le università siano profondamente diverse tra loro e come in ogni Paese vi siano delle cose migliori, ma anche peggiori, rispetto all’Italia. Per esempio, almeno fino a 10 anni fa l’Italia vantava ancora il livello di studenti laureati più alto d’Europa (e quindi del mondo). Oggi, invece, è triste sapere che – per inseguire statistiche senza senso – il livello della scuola e dell’Università si siano livellati e abbassati drasticamente. Nel 2021 abbiamo una percentuale di laureati molto più alta rispetto a 20 anni fa, ma solo perché tutto il sistema è diventato più semplice, mentre prima un laureato era sicuro di trovare un bel posto di lavoro, perché la laurea era una garanzia di qualità. Altre cose in cui l’Italia è carente sono la mobilità e l’internazionalizzazione (concetto ben diverso da globalizzazione e migrazione). Nell’ambito accademico è molto importante avere esperienze diverse, magari anche solo per poche settimane come visitor. Venire a contatto con realtà diverse aiuta a capire, vedere e valutare le cose sotto diversi punti di vista. Tutto ciò ha immediato riscontro nell’ambito della Ricerca”.
La sua decisione di lavorare all’estero è stata una libera scelta o è il classico esempio di un “cervello in fuga”? Se sì, come mai molti come lei sono costretti ad andare all’estero e non riescono a coltivare la propria professione in Italia? “Non so se posso dire di essere stato obbligato oppure no. Durante l’ultimo anno di Dottorato, fui contattato da un Professore abbastanza famoso nel campo che mi offrì un contratto come ricercatore ad Augsburg (Germania). Vista la fama del docente e le opportunità di quell’università, accettai. L’esperienza in sé fu fallimentare e decisi di andarmene dopo una decina di mesi, trovando subito un contratto in Scozia. Da lì in poi non ho mai vissuto un solo mese da disoccupato. In Italia tutto questo non sarebbe mai potuto avvenire. Inoltre, come ho detto prima, è importante che un ricercatore si sposti e faccia della gavetta in tanti posti. Tornando alla domanda, il problema vero è che non si viene messi in grado di tornare in Italia. Il problema del nostro Paese è che ti forma, ma poi non fa nulla per tenerti. Forse i fondi universitari ci sono, ma vengono spesi molto male, avvinghiati in una burocrazia ridicola. Per esempio, io ho una mia cattedra a Cork da tre anni: sono coordinatore del secondo anno di chimica e insegno a svariate centinaia di studenti. Grazie all’università ho acquisito un diploma in insegnamento (corso di due anni spesato dall’università stessa), eppure se dovessi venire in Italia sarei obbligato a fare un esame di abilitazione…”.
Lo scorso 19 giugno è stato ospite all’assemblea pubblica (organizzata dall’associazione Castle Rock, nda) “Ambiente e Salute: quale futuro per i nostri giovani?” andata in scena a Bressana Bottarone e il suo è stato uno degli interventi più seguiti dal pubblico presente. Ce lo può riassumere velocemente? “La serata è stata molto interessante e sono stato felice di contribuirvi, anche perché in Irlanda è normale che gli accademici contribuiscano a eventi di sensibilizzazione pubblica. Il mio intervento Chimica e Ambiente: bufale e miti serviva per stimolare e fare capire che spesso in TV e sui giornali si leggono notizie fuorvianti, soprattutto sulla chimica e sull’ambiente, usando alcuni esempi come il caso dello shampoo Jonhson & Jonhson che fu ritirato dopo una campagna d’odio (e ai tempi non vi erano ancora i social network…), perché conteneva una sostanza cancerogena. Peccato che la stessa sostanza esista in quantità più elevata nelle pere e in altri frutti. Attenzione: la soluzione non è nel non mangiare più pere o frutta: la soluzione è capire che non è vero che lo shampoo è pericoloso, perché suddetta sostanza non è cancerogena a basse concentrazioni (come non lo è nella frutta). Un altro argomento importante ha riguardato le auto elettriche. Al momento non è provato che siano utili per l’ambiente, anzi… Partendo dal fatto che l’energia elettrica è prodotta in parte da fonti fossili, il problema più grosso riguardano le materie prime, che servono per costruire le batterie, e i processi di fonderia, che servono per fare le lamiere di queste auto (che devono essere più leggere per compensare il maggior peso delle batterie). Inoltre, vi è il problema dello smaltimento: insomma, le conclusioni si tirano alla fine e non è detto che a fine ciclo un’auto elettrica abbia consumato meno rispetto a un auto a GPL o a Metano”.
Cosa vorrebbe consigliare a un giovane studente che vuole percorrere i suoi studi e la sua carriera, ma che vive qui dalle nostre parti? “Di pensarci bene prima di intraprendere una tale scelta. E, inoltre, di sapere che richiederà molti sacrifici (nei primi anni sicuramente non si potrà pensare di lavorare solo otto ore al giorno…). Infine, che il rischio di non riuscirci è elevato. Tuttavia, se dopo averci riflettuto bene, è ugualmente convinto, allora il consiglio è di impegnarsi al massimo, di non porsi limiti e di osare”. A parte riprendere la sua normale attività di professore all’università irlandese, ci sono altri progetti per il suo futuro lavorativo? “Al momento non ci penso, nel senso che per i prossimi 2-3 anni non vedo cambiamenti. Per quanto riguarda il futuro a medio-lungo termine non escludo nulla”.